FILU FERRU

Packaging   |   2016

Il progetto di packaging realizzato per le Distillerie Lussurgesi vuole promuovere una rete tra eccellenze. Tra le tante di Santu Lussurgiu emergono la distillazione e i ferri battuti. Entrambe le arti hanno secoli di vita. Mettere insieme due espressioni della bellezza Lussurgese è stato semplice. Un progetto per riconoscersi e proporsi al mondo.

Le forbici per tosare realizzate a mano dal fabbro

Santu Lussurgiu e l’acquavite.
A Santu Lussurgiu si è cominciato a distillare già nel Settecento. Ne parla il gesuita Francesco Gemelli, che ricorda come di acquavite «fassene gran quantità a Villa-Sidro, a S. Lussurgio e altrove». Più tardi il magistrato Francesco Maria Porcu descrive l’operosità del paese che «produce molto vino e quantità non indifferente se ne distilla, onde sorte un’acquavite superba, che se ne profonde in tutto il Regno». Ma sarà l’Ottocento a dare a Santu Lussurgiu quella rinomanza nell’arte della distillazione che dura ancora oggi. Come testimonia l’Angius nel suo Dizionario Geografico, Storico, Statistico, Commerciale del 1837, nei primi decenni del secolo la produzione di acquavite diventò una fonte di sostentamento per molte famiglie Lussurgesi che diedero avvio ad una diffusa rete di distribuzione: il distillato caricato sui carri e cavalli veniva venduto, assieme ad altri prodotti locali, in numerosi centri dell’isola.
L’espansione della coltura della vite nei primi decenni dell’Ottocento e l’abbondante produzione di vini leggeri, ottenuti con uve non completamente mature, incoraggiarono la produzione di acquavite, facendo di Santu Lussurgiu uno dei maggiori produttori di distillato di vino, nella provincia di Cagliari e nel Circondario di Oristano. Successivamente la presenza dei francesi segnerà, nella storia della distillazione Lussurgese, un momento importante per l’affinamento delle tecniche di distillazione e per la produzione di acquavite di buona qualità. È possibile, per esempio, che l’aggiunta di semi di finocchio selvatico (sa mattafiluga), nota tipica dell’acquavite Lussurgese, derivi dall’abitudine dei francesi di aromatizzare i liquori.
La distillazione, molto spesso affidata alle donne, avveniva con l’ausilio di semplici alambicchi (sos limbicos) costituiti da una caldaia (sa brocca), un cappello (sa pùbula) e dall’apparato refrigerante (sa conca ‘e su limbiccu). Questi apparecchi, costruiti in rame, rappresentavano il modello più semplice del sistema di distillazione per ascensione. Il procedimento prevedeva il riscaldamento del vino che, trasformato in vapore, percorreva in via “ascensionale” (verso l’alto) il sistema refrigerante che condensava i vapori alcolici, riducendoli allo stato liquido.
Il governo sabaudo non contribuì però all’espansione e allo sviluppo di questo settore. Seguendo la tradizione spagnola, allo scopo di controllarne la produzione e la vendita, introdusse pesanti disposizioni fiscali in materia di liquidi distillati.
Intorno agli anni Settanta, il bisogno di apportare alle casse dello Stato nuovi introiti tributari, portò al varo di una serie di provvedimenti restrittivi che raggiunsero livelli intollerabili e per certi versi disastrosi per l’attività dei piccoli produttori, legati ancora a sistemi artigianali.
La legge Sella del 3 giugno 1874 n. 1952 vietò la libera distillazione casalinga a scopi commerciali: per poter distillare era necessario chiedere una particolare autorizzazione e il pagamento di una tassa. Iniziò dunque una lenta fase di decadenza e la produzione dei distillati si mantenne viva a solo a Santu Lussurgiu, Villacidro, Sorso e Sennori.
Questi provvedimenti ebbero l’effetto di favorire la produzione clandestina di acquavite e nonostante le pesanti limitazioni, le famiglie Lussurgesi continuarono a distillare abbardente, preoccupandosi soprattutto di sottrarla alla vista degli agenti governativi.
Per farlo utilizzarono i nascondigli (quadorzos) che le loro case offrivano: botole sotterranee ricavate negli strati inferiori dei pavimenti in terra battuta, intercapedini appositamente realizzate nello spessore dei muri portanti di casa, mobili a doppio fondo, nascondigli ricavati nelle alzate dei gradini, e in fine, le buche scavate negli orti.
A quest’ultima pratica si deve l’eufemistica denominazione di FILU FERRU, secondo cui i distillatori clandestini, prima di sotterrare i fiaschi o le damigiane piene di acquavite, erano soliti ancorarli con un “fil di ferro” abbastanza lungo da fuoriuscire dal terreno, in modo tale che la parte emergente servisse da segnale per il successivo recupero.

Le sei etichette della linea

Lavorare il ferro a Santu Lussurgiu.
Ci vogliono muscoli per lavorare il ferro arroventato dal fuoco. E ci vuole precisione quando si sferrano i colpi di martello. Un mestiere antico, quello del fabbro, quasi scomparso oggi (sopratutto nelle grandi città) ma che resiste comunque al passare del tempo, mantenendo intatta la sua identità. Una cultura del fare resa attuale dal costante aggiornamento delle tecniche di lavorazione, che mantiene la stessa cura delle fasi del processo produttivo di ogni singolo manufatto così come la scelta attenta delle materie prime da utilizzare.
La lavorazione del ferro qui, a Santu Lussurgiu, ha un significato particolare. Si tratta di un ambito nel quale, grazie all’eredità di un sapere di antica ascendenza, quello della fucina, il paese esprime da sempre risultati di assoluta eccellenza, riconosciuti ovunque.